Facciamo qualcosa per i rifugiati
Di fronte all’immobilismo dell’Europa, l’Italia ha chiuso le porte all’immigrazione. Ma per i migranti che sono già qui bisogna pur far qualcosa, in particolare per i rifugiati cui è stato concesso asilo. Avviarli al lavoro è la prima opzione per integrarli in un territorio, che chiede manodopera in diversi settori della produzione e dei servizi.
Dal fronte dei migranti, niente di nuovo. Possiamo sintetizzare così il perdurante immobilismo dell’Unione rispetto alla potente attrazione che l’Europa continua ad esercitare sulle popolazioni africane e medio orientali. Per rendersene conto, è sufficiente mettere a confronto il caso della Diciotti con quello della Sea Watch, di cui i media ci hanno fornito ampie cronache.
Il primo è scoppiato nel pieno dello scorso ferragosto, quando la nave della marina militare italiana ha preso a bordo 177 migranti eritrei, che stavano naufragando su un barcone in acque maltesi classificate Sar (ricerca e soccorso). Il nostro Ministro degli Interni ha per questo preteso che se ne facesse carico La Valletta e che si procedesse alla redistribuzione di quei poveri disperati, in prevalenza ragazze e minori, fra Paesi europei sulla falsariga degli accordi conclusi poco prima per la Aquarius. Dopo gli inevitabili tira e molla, l’emergenza è stata risolta e l’Italia ne ha accolti una quarantina presso strutture religiose, dalle quali peraltro in pochi giorni quasi tutti si sono dileguati.
Il caso Sea Watch è di questo inizio anno. Il 19 gennaio questa nave di una ong tedesca con bandiera olandese aveva soccorso di fronte alle coste libiche 47 migranti, rispondendo alle richieste di intervento lanciate da un call center informale gestito da un’altra ong. Qualche giorno dopo aveva cominciato a dirigersi verso le coste italiane, provocando una nuova dura reazione del nostro Ministro degli Interni che si affrettava a ribadire il suo no. Pur assicurando assistenza sanitaria a bordo, confermava che i porti italiani rimanevano chiusi e demandava all’Olanda o alla Germania il compito di occuparsi dello sbarco. Dopo un’odissea di una ventina di giorni, alla nave è stato consentito di attraccare al porto di Catania e i suoi occupanti sono stati indirizzati a varie destinazioni.
Due casi fotocopia, anzi tre, perfettamente sovrapponibili e separati da parecchi mesi che non hanno insegnato nulla. Ogni volta i Paesi membri si sono attenuti all’inconsistente accordo stipulato al Consiglio europeo del giugno 2018, quando avevano sottoscritto una generica disponibilità a ripartirsi i rifugiati su base volontaria. Tanto era bastato al nostro Premier, che se n’era tornato a Roma fiero di aver ottenuto il riconoscimento che le coste italiane sono coste europee. Non era vero niente e i casi che abbiamo appena ricordato gli hanno fatto capire tutta l’indifferenza dei colleghi dell’Europa continentale.
Se non è cambiato niente a livello europeo, è cambiato invece molto nel nostro ambito nazionale. Il nuovo corso è cominciato nel 2017, quando l’Italia ha abbandonato la linea di apertura e stipulato accordi con la guardia costiera libica e con alcune tribù locali, finanziandole affinché scoraggino i migranti provenienti dalle regioni subsahariane e se necessario li trattengano in centri di detenzione. Il nuovo Governo conseguente alle elezioni del marzo 2018 ha confermato questa linea ed anzi l’ha accentuata. Il c.d decreto sicurezza adottato nell’autunno e convertito in legge a fine anno ha limitato fortemente l’accoglienza per motivi umanitari e soprattutto ha chiuso l’esperienza degli Sprar, la rete di integrazione diffusa basata sulla disponibilità dei Comuni e affidata alla gestione di Cooperative sociali convenzionate con le Prefetture. E’ stata la rete che ha consentito di sgomberare lo scandaloso Cas (Centro accoglienza straordinario) di Bagnoli, una ex base missilistica nella quale erano stati ammassati e trattenuti in condizioni critiche per tre anni centinaia di migranti.
Ora però la nuova linea governativa non vuol sentir parlare di accoglienza e rifiuta l’immigrazione tout court. Nessun rappresentante italiano è intervenuto al summit di Marrakech dove il dicembre scorso 164 Paesi hanno sottoscritto il Global Migration Compact, il primo accordo proposto dall’Onu per affrontare con un approccio comune i movimenti migratori diventati massivi in tempi di globalizzazione. Il nostro Governo ha preferito allinearsi con Paesi come la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria, noti per essere sistematicamente indisponibili ad accogliere percentuali anche minime dei flussi che immancabilmente approdano sulle nostre coste.
Questa strategia vanta al momento alcuni risultati. Nello scorso anno in Italia sono considerevolmente diminuiti gli sbarchi (23 mila, centomila in meno dell’anno precedente) e i morti in mare (1.300 contro 2.800), come effetto della riduzione delle partenze. Però con le migrazioni avremo a che fare per decenni. E’ facile immaginare che ci saranno altri casi Sea Watch e che molti altri tenteranno di raggiungere l’Italia, per continuare magari verso altre destinazioni. Saremo volenti o nolenti investiti da movimenti di popolazioni solo in parte minore generati da guerre, discriminazioni, violenze, persecuzioni. Saranno soprattutto gli squilibri demografici a muovere grandi masse, con l’Africa che a metà secolo avrà un miliardo di abitanti in più e l’Europa che scenderà dal 7 al 5% della popolazione mondiale e avrà 50 milioni di persone in età lavorativa in meno.
Alla demografia, si aggiungeranno le disuguaglianze economiche, i cambiamenti climatici e perfino l’atteggiamento delle generazioni più giovani, che secondo recenti studi espatriano per liberare il loro spirito d’avventura e dar prova di coraggio, pur non trovandosi in condizioni di indigenza o pericolo.
L’unica possibile strada da percorrere è sempre la stessa: contribuire alla stabilizzazione politica dei Paesi africani e intrecciare le relazioni diplomatiche necessarie per gestire in qualche misura il fenomeno. Ma questa strada l’Europa non l’ha nemmeno imboccata ed ogni Paese fa da sé a seconda delle proprie convenienze, rifiutandosi perfino di riconoscere all’Unione il potere di operare in questo settore.
Non resta che provare ad avviare qualche sperimentazione locale per favorire l’inserimento lavorativo dei richiedenti asilo in territori come il nostro, che lamentano carenze di manodopera in diversi settori della produzione e dei servizi. In città sono 5/600, in provincia poco più di mille, numeri assolutamente gestibili da parte della Caritas diocesana e delle Cooperative sociali, che tuttavia sono state messe in grave difficoltà e sembrano al momento perdenti. Ma possono proseguire nel loro impegno se trovano aiuto nelle comunità locali, nelle Fondazioni bancarie, nei nuovi canali di finanziamento aperti dalla riforma del Terzo settore, nei periodici bandi della Commissione europea. La partita non è chiusa ed il fenomeno migratorio non può essere arrestato da un decreto, meno che mai da uno grossolano e sconsiderato come quello da poco in vigore.
Fabio Pietribiasi
(articolo pubblicato anche in www.eurovicenza.eu)